Racconto breve: Il colore della zucca

Buonasera a tutti! ^^ Ecco per voi una piccola sorpresina, sperando che sia gradita.

Il colore della zucca - copertina2 orizzontale

Questa storia avrebbe partecipato al III contest di scrittura del Circolo Raynor’s Hall, ma per problemi di salute non ho potuto terminarla in tempo.
La sfida consisterebbe nello scrivere racconti brevi che non devono superare gli 8.000 caratteri spazi inclusi, ma non avendo infine partecipato vi lascio la versione estesa. Il tema viene estratto tra quelli che vengono proposti dai partecipanti. In questo caso è: “Zucche” di Galenacaehrdelirhon, a cui devo l’ispirazione per questa storia.

Il colore della zucca - copertina2 verticale

Autore: Irene Sartori (Erin Wings Krown)

Titolo: Il colore della zucca

Altro titolo: Il colore delle zucche

Tema: “Zucche” di Galenacaehrdelirhon

Genere: racconto breve.

Sottogenere: horror/thriller, drammatico.

N. di caratteri (sp. inclusi): 16.143.

Non mi resta che augurarvi buona lettura! ^^ E non dimenticatevi di lasciare un commento!
Se vi piacerà potete anche lasciare un voto.

Il colore della zucca – pdf

IL COLORE DELLA ZUCCA

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Non ho mai compreso perché questo strano ortaggio abbia un sapore tanto in netto contrasto con la sua vitalità, eppure nessuno a parte me sembra preoccuparsene troppo. Forse non capiscono quanto questo abbia in realtà molta importanza.
Osservo con ammirazione il mutamento nei soggetti che sto studiando, diventano sempre più grandi e alcuni purtroppo prendono pieghe inaspettate. Ciò nonostante non voglio abbattermi, ho già fatto passi da gigante in questa mia strana ricerca, non mi lascerò uccidere dall’ignoranza della gente lì fuori che mi crede pazzo. La mia non è un ossessione. È amore.

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Sono sempre stato convinto che non fosse l’ignoranza il problema, quanto l’intelligenza in persone che non lo meritano. Come prova della mia triste affermazione posso narrarvi ciò che mi accadde pochi giorni prima che la sfortuna si abbattesse su di me in una condizione da cui non posso risollevarmi.
Cominciò tutto in un giorno splendente di pioggia. Ho sempre odiato l’acqua che cade dal cielo, ma Elena la amava. E io amavo lei. Ogni volta che pioveva avevo il tempo di starmene tranquillo senza la noia di mio fratello e delle chiacchiere di mia sorella. Così, libero da qualsiasi impegno e congedato dal lavoro nella bottega di famiglia, uscivo di soppiatto e correvo da Elena.
Passavamo le giornate giocando, rincorrendoci nel giardino, torturando le povere oche di sua madre che starnazzavano fuggendo da noi in fila indiana, mentre tiravamo sassi per colpirle. Povere oche! Ma a noi non importava di loro, eravamo bambini, pensavano solo a divertirci. Eravamo egoisti.
Tutto cambiò quando Elena, compiuti i diciott’anni, fu costretta a sposarsi con un uomo facoltoso di cui nemmeno so il nome, che la portò via da me per sempre.
Prima della partenza la mia amica venne a trovarmi. Pioveva. Lei portava i capelli più lunghi di come ricordavo, erano passati molti mesi da quando ci eravamo visti prima del suo fidanzamento. Eppure era sempre la mia Elena, lo vedevo bene. Quei capelli scuri, mossi, non si gonfiavano più al vento, li portava raccolti in una severa acconciatura. Nel suo sguardo profondo, in quegli occhi castani, però, vidi ancora la mia amata Elena.
Quando mi posò un casto bacio su una guancia, notai che si era leggermente commossa, con una mano si portò un fazzolettino al viso per asciugare gli occhi e non rovinare il trucco. Mi chiamò amico, disse che mi voleva ancora bene, e in quel momento pensai che forse sarebbe rimasta nei paraggi, che col tempo ci saremmo rivisti. Invece si trasferì lontana, di sicuro costretta dal marito, e io non la rividi più da quel giorno.
In seguito seppi che era stato abbandonata dal consorte, che era fuggito con l’amante lasciandola sola e senza nulla. Nemmeno i vestiti che indossava le appartenevano, così la mia dolce Elena si trovò costretta a concedersi al Signore per il resto della vita.
Io la cercai per molto tempo, ma non riuscii mai a trovarla. Penso che lei stessa non volesse vedermi, forse per la vergogna di essere ridotta a una nullatenente. Ne soffrivo; io l’avrei sposata, le avrei dato tutto e saremmo vissuti felici. Ma forse lei non amava davvero, o non abbastanza, perché l’ultimo ricordò rimase quel giorno di quarant’anni fa, prima che lei sparisse per sempre.

 

 

2

La mia vita nonostante il dispiacere per la perdita di Elena trascorse serena e colma di agi. Infine ero divenuto più ricco di lei, che dopo essersi allontanata dalla famiglia benestante e essere stata abbandonata dal marito non aveva più nulla.
Ero occupato nella gestione della bottega di famiglia, che si era ingrandita fino a divenire una piccola azienda che mi faceva guadagnare bene.  Avevo una moglie, la mia bionda Agata, una donna piena di vita e dalle mille risorse. Mi ha dato tre figli. Insieme formiamo ancora una bella famiglia, o almeno potremmo se io non fossi ciò che sono.
Un giorno, nel mese di ottobre, mi trovai a passeggiare nei pressi di quella che un tempo era la casa della mia migliore amica. Osservai il rigoglioso campo di zucche che suo padre continuava a coltivare con orgoglio. Fu in quel momento che mi tornò in mente quanto lei le adorasse. Fu proprio allora che io stesso cominciai ad amarle.

Tornai spesso in quel giardino. Osservavo da fuori le grosse zucche divenire sempre più belle ai miei occhi ed ero colpito da quanto calore sembravano infondere nel mio animo. Quando le guardavo stavo bene, mi sentivo in pace, mi pareva di essere ancora con lei.
Infine decisi anch’io di coltivare le zucche. Mi informai su un libro di coltivazione, osservai il giusto periodo, la quantità d’acqua necessaria. Ci volle comunque molto tempo perché il mio campo raggiungesse la metà della bellezza di quello che per molti pomeriggi avevo ammirato, ma ne ero comunque soddisfatto. Quelle zucche erano un collegamento immaginario che mi portava a lei. Tutto il resto non aveva senso. Solo quel maledetto colore.

3

Erano passati vent’anni da quando Elena se n’era andata. Eppure non mi era mai sembrata così vicino come in quei momenti. Mentre sedevo nel portico della mia casa, ascoltando il flebile ticchettio della pioggia e osservando le mie care zucche, pensai che nonostante tutto avevo ottenuto il mio obiettivo. Lei era con me.
Preso dalla mia ossessione però stavo perdendo l’affetto dei miei cari. Agata, inaridita dal mio comportamento solitario, se ne andò per un po’ di tempo dai genitori nella città vicina. I nostri figli andarono con lei e io rimasi solo nella nostra casa. Eppure stavo bene. Non avevo mai amato la solitudine, ma col tempo qualcosa in me era cambiato. Avevo perso Elena e ora aveva trovato un nuovo amore che rimpiazzasse la sua presenza. Ero colpito da quel colore carico, vivo, che esprimeva energia anche sotto la pioggia. Avevo abbandonato da tempo la sensazione che da piccolo mi facevano le zucche, timore. Quando mia madre le intagliava per la festa degli spiriti, mi raccontava sempre storie terribili sui morti che nell’ultimo giorno di ottobre uscivano dalle tombe sotto forma di fantasmi e si aggiravano per i campi. Ne ero terrorizzato.
Crescendo però si cambia. Non ne avevo più paura, non mi provocava alcun disgusto il loro sapore troppo dolce, e quella forma rotonda mi ricordava le guance morbide della mia Elena, sempre così piene di vita e arrossate dal vento.

Nell’ottobre di quell’anno mi sentivo rinvigorito da un nuovo spirito. Pensavo a Elena e a nostri giorni più felici, a lei che correva accanto a me, a quando ci divertivamo a spaventare le oche che allevava sua madre.
Quando però seppi la triste notizia della morte di entrambi i suoi genitori fui colto da una terribile tristezza. Di colpo pensai a mia moglie, ai miei figli e allora decisi di riprendermi la mia famiglia. Agata era di buon cuore, decise di tornare con me, ma il nostro rapporto si era ormai incrinato e lei non seppe starmi accanto in quel momento di dolore.
Ritornando ora con la mente a quei giorni posso solo dire che passata la tristezza per i genitori di Elena mi tuffai in quello che si può dire davvero un passatempo insolito. Intagliavo zucche.

     Dopo averne raccolto almeno una ventina le lavavo, pulendole dalla terra, le svuotavo e poi cominciavo a formare strani disegni in quell’arancione, servendomi di un coltellino che da ragazzo usavo per spaventare quelli più grandi di me.
Venivano delle vere opere d’arte, e quello sarebbe stato davvero un bel passatempo se non avessi avuto la tremenda idea di ritornare nel luogo che mi aveva fatto amare quegli strani ortaggi.

4

Quando entrai nella villetta, aggirando il grande campo di zucche, notai subito che qualcosa non andava. Una sensazione di vuoto mi prese lo stomaco, era come se un’anima tormentata si aggirasse nel campo ormai secco e privo di vita. Quel luogo un tempo rigoglioso era divenuto un tetro cimitero di anime defunte.
     Entrai lottando contro la titubanza e mi guardai intorno sconcertato. Non solo la casa non era come la ricordavo, non aveva nemmeno più l’aspetto di una casa. Ragnatele pendevano dal soffitto in ampi tendaggi biancastri, piene di bozzoli dove insetti intrappolati si dimenavano consci di essere la cena di qualche grosso ragno. Ne vidi uno proprio in quel momento, zampettare veloce verso la preda e rigirarla come la stesse ammirando, per poi inghiottirla come la decadenza aveva fatto con quell’antica dimora.
Distolsi lo sguardo da quello squallore, avanzai con l’intento di fare un giro per le stanze. Ma non fu la mia migliore idea.
Quando entrai nella vecchia camera da letto di Elena, senza nemmeno rendermene conto, fui preso dal più doloroso terrore.
Macchie incrostate di sangue erano ovunque, e mi accorsi con disgusto che erano mischiate al succo polposo e arancio di molte zucche. I pesanti tendaggi porpora era crollati al suolo e finiti a terra si erano inzuppati in quel sangue ormai solidificato da tempo. Il letto era in disordine, il pavimento coperto di sangue e melma arancione e altri liquidi su cui in quel momento non mi interrogai. Ero preso dall’immagine di morte che mi si stagliava innanzi con prepotenza; nel petto percepiva un grumo di sofferenza farsi avanti per mozzare ogni mio respiro.
Un corpo ormai ridotto in scheletro penzolava dal lampadario, le braccia ossute inchiodate alla struttura del letto a baldacchino. Con gli occhi sbarrati osservai con orrore la morte, incapace di distogliere lo sguardo. Ciuffi di capelli neri, ancora acconciati in boccoli ribelli, ricadeva su un volto che aveva poco di umano; appariva ai miei occhi come uno spettro terribile, con quegli zigomi ossuti, le mandibole sporgenti in ossa bianche, con ancora dei brandelli di carne putrefatta che rimaneva attaccata per grazia divina.
Il corpo era avvolto da un pesante mantello color ruggine, che ricopriva tutto fuorché le ossa delle gambe, che penzolavano muovendosi al soffio leggero della corrente. Guardai dietro di me e vidi che la porta era ancora aperta. La chiusi.
Le ossa smisero di tremare, ma in compenso cominciai a essere scosso io. Eppure mi avvicinai. Ero terrorizzato e schifato da quel volto assurdo davanti a me, ma al contempo ne ero follemente affascinato, tanto che mi avvicinai fin quasi a sfiorare con il naso il tessuto grezzo e consunto del mantello.
Volsi gli occhi all’insù. Sentivo l’odore del sangue, della carne morta, ma non me ne importava. Volevo capire se davvero ciò che avevo davanti agli occhi potesse essere reale. Era quel volto a incuriosirmi, quelle ossa inondate di succo rugginoso indurito dal tempo, quei rigonfiamenti che facevano pensare alla forma tondeggiante e imperfetta delle zucche.
Mentre riflettevo colmo di un sadico fascino notai un particolare su quel volto; le orbite oculari erano nere, come pozzi profondi di oscurità, neri come la morte.
Indietreggiai inorridito, mentre una strana e sgradevole sensazione si faceva strano dentro di me. Mi chiesi di chi fosse quel corpo e solo allora realizzai che poteva essere solo di una persona: Elena.
Colto di sorpresa da quella rivelazione corsi fuori dalla stanza urlando e vaneggiando; ero preso da una follia che mi spingeva a correre sempre di più, lontano da quel luogo demoniaco. Inoltre ero terrorizzo da me stesso, dal fascino che avevo provato nel vedere quel corpo, un fascino che copriva persino il naturale orrore che provavo.

     Mi disgustava la mia mente, il mio essere, mi odiavo per ciò che avevo visto e per ciò che avevo provato e soffrivo per la mia dolce Elena chiedendomi chi avesse potuto ammazzarla a quel modo.
Tornai a casa e mi rifugiai nella mia stanza, crollai sul letto e ci rimasi per giorni, settimane, mesi, preda di una pazzia che mi consumava, di una sofferenza che non riuscivo a combattere.
Guarii solo grazie ad Agata, che mi rimase vicino nonostante non capisse quale male mi affliggesse, si prese cura di me con amore e dedizione. Infine mi sentii meglio, ma il ricordo di quel giorno e soprattutto di quella scoperta mi uccideva consumandomi da dentro, lentamente, giorno dopo giorno.

5

 

 

Fui dichiarato malato di mente appena un anno dopo, quando Agata morì partorendo il nostro ultimo figlio. Anche lui morì, e io caddi nella disperazione. A nulla valsero i tentativi di risollevarmi da parte dei miei cari figli, io non volevo più vivere, volevo morire per raggiungere Elena e Agata.
Finii rinchiuso in un manicomio ed è dove sono ora, chiuso nella mia cella a raccontare la mia triste storia. Non c’è altro da cui io possa trarre conforto se non nello trascrivere le mie sofferenze in questa carta stracciata o nel narrare a volte la mia vita ai miei compagni pazzi.
Mi trovo nella condizione di voler uscire da qui perché non mi ritengo malato di mente, e so che prima o poi mi faranno uscire. So anche dove andrò. Tornerò in quel posto maledetto, nella casa di Elena, per scoprire la verità sulla sua morte, per capire come sia morta e chi l’abbia uccisa e perché.
Poi voglio quelle zucche, oh, sì, le zucche color ruggine del padre di Elena, così belle, così succose.  Voglio comprendere il loro significato, il senso della loro esistenza. Voglio scoprire il motivo di quel loro particolare colore che ispira tanta gioia  e sconforto, e insieme una profonda malinconia.
Mi terrò in forze solo per questo, per uscire da questo dannato posto e studiare la loro verità, quella che credo sia racchiusa in quel colore.
Il colore delle zucche.

Epilogo

 

 

10 anni dopo.

Il vecchio guardiano chiuse la porta a sbarre della cella e si avviò con passo baldanzoso verso l’uscita. Il suo turno era finito da un pezzo, ma era sempre lui, il povero Isaac, a dover chiudere tutte le porte lasciate aperte da quei maledetti pidocchi delle guardie.
Tutti i pazzi in quel momento dormivano nel dormitorio, un enorme stanzone che era stato costruito qualche anno addietro per fare in modo che non morissero di freddo nella loro cella durante la notte. Isaac la trovava una vera stronzata, per lui sarebbe stato meglio che quei dannati morissero tutti così lui finalmente sarebbe potuto andare in pensione e se non questo almeno avrebbe avuto meno lavoro da sbrigare. Dentro di sé pregò perché si prendessero a coltellate durante la notte, cosa che ogni tanto era anche successa.
Stava raggiungendo la porta che dava al corridoio quando si accorse di un’ultima porta rimasta aperta. Imprecò tra sé riconoscendo il numero di cella: 666.
Lo fece anche se non avrebbe voluto per nulla; si avvicinò, lentamente, puntando la torcia verso l’interno.
Il fascio di luce illuminò una cella sudicia, pareti ricoperte di muffa e un letto di ferro arrugginito coperto da lenzuola macchiate di liquidi organici.
Il guardiano avanzò di un passo, disgustato dall’odore che usciva dalla cella. “Maledetti schifosi pa…”
Non riuscì a terminare quel pensiero. Qualcosa lo colpì in pieno volto e Isaac finì a terra.

Riaprì gli occhi poco dopo. La prima cosa che vide fu che la porta era chiusa e la torcia caduta a terra era ancora accesa a pochi passi da lui. Si alzò tastandosi la testa e andò per raccoglierla. Era in quel dannato manicomio da troppo tempo per farsi prendere dal panico.
Solo allora si accorse che la torcia illuminava le pareti, rivelando strane scritte di un colore simile al sangue.
Il guardiano fece un passo indietro. Non poté però fare a meno di leggere alcune parole: la zucca… finirà… nel… Poi c’era una parola spezzata che iniziava con “ma”. E dopo il nome Elena.
Aggrottò la fronte, perplesso, poi scrollò le spalle pensando a un solo motivo per quei vaneggiamenti, perché altro non potevano essere. “Follia”.
Si chinò e prese la torcia, ma non fece in tempo a raddrizzare la schiena. Sentì un dolore lancinante, una fitta terribile vicino al collo. Qualcosa di affilato l’aveva colpito.
Gli sfuggì un grido soffocato, ma ormai era troppo tardi. Sentì il sangue colare lungo la schiena e le spalle. Crollò a terra mentre il terrore lo paralizzava.
L’ultima cosa che vide fu un’ombra che gli passava davanti, un volto sogghignante, e poi il buio.
E la torcia che illuminava una sola parola sfocata.
Pazzo.

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Licenza Creative Commons“Il colore della zucca” di Irene Sartori è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale

24 pensieri su “Racconto breve: Il colore della zucca

  1. Peccato tu non lo abbia potuto inviare in tempo per il concorso. Avrebbe avuto successo! Molto avvincente e soprattutto sorprendente nel colpo di scena finale. Degno di Edgar Allan Poe. 🙂 Bravissima. 🙂 Ciao, Piero 🙂

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  2. galenacaehrdelirhon

    Oh IRENE! Che peccato tu non abbia partecipato alla sfida, questa avrebbe sicuramente ricevuto un sacco di consenso. Sono davvero contenta che la mia parola ti abbia ispirato una storia così bella.
    E’ davvero bellissima, intrigante, spaventosa e con un finale da brivido!

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  3. Alvise Brugnolo

    *Applausi* Bellissimo! Mi è piaciuto un sacco 😀 Descrizioni ottime come sempre 😉 L’atmosfera mi ricorda quella che aleggia nei racconti di Lovecraft! Bravissima Irene 😉

    P.S. io te li consiglio i racconti di Lovecraft, sono un gente horror a parte, praticamente 😉

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  4. Ed eccomi qua, finalmònt!! XD

    io cambierei sta frase; -o non abbastanza, perché l’ultimo ricordò rimase quel giorno di quarant’anni fa, prima che lei sparisse per sempre- (metterei quarant’anni addietro)
    poi piccolo innocente refusetto -In seguito seppi che era stato- (è ‘stata’, giusto?) e secondo me i verbi altalenano un po’ troppo cozzanti…
    Cambierei anche la faccenda del ragni, che non inghiottono le loro prede, ma le succhiano dopo che il veleno apposito le liquefà…
    Nonostante tutti gli appunti sopra, devo dire che sta storia è una figata. Inoltre quando sono giunta al punto dove lui dichiarava di essere in un manicomio e descriveva i suoi intenti, non mi aspettavo che il racconto proseguisse O___O
    Che figata, ti avrei dato il massimo dei voti, anche se, c’è da vedere come te la saresti cavata con gli 8000 caratteri XD

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